MINDFULNESS COS’E’
Con la mindfullness si può scoprire come la prima causa della sofferenza psicologica che ci affligge siamo noi stessi dandoci una via per liberarcene
La mindfullness è una pratica che allena a prestare attenzione al momento presente. Il QUI e ORA. Insegna a fermarsi, accettare ciò che esiste dentro e fuori di noi in quell’istante. Insegna ad annusare le rose e inebriarsi delle sensazioni uniche e personali che si provano nel fare ogni semplice nostro gesto.
Le persone sono spesso abituate a vivere nel passato (interpreto ciò che mi accade attorno sulla base dei miei schemi acquisiti attraverso le esperienze e le interpretazioni postume del mio passato) o nel futuro (cosa devo fare dopo, come andrà quell’incontro, quell’appuntamento, mi lascerà, che domande ci saranno all’esame…). Vivere il momento presente sembra essere diventato un lusso per pochi. Sembra che abbiamo disimparato a stare dentro di noi, a contatto con il corpo e con le nostre emozioni. Sembra quasi che abbiamo disimparato a vivere. Sì perché la vita è fatta di sensazioni ed emozioni contestuali. Le azioni che svolgiamo possono riguardare solo il presente. Non possiamo svolgere azioni sul passato o nel futuro. Eppure la nostra mente è costantemente da un’altra parte. Non ci permette di essere presenti a noi stessi. Questo stratagemma di evitamento a cosa ci serve? Beh…siamo nella società del controllo, della competizioni, delle performance. Siamo nella società dell’evitamento di una delle cose più naturali che esistano nella vita: LA MORTE. La morte fa parte della vita, è un ciclo naturale. Ogni qual volta entriamo nell’idea, anche nella semplice idea/pensiero di provare dolore….BAM. ci anestetizziamo. Il passato ci serve a come monito e dunque a sviluppare le difese più funzionali per evitare ciò che già conosciamo come doloroso. Il futuro ci serve a controllare ed evitare un potenziale dolore. Il dolore ci ricorda inevitabilmente la morte e la maggior parte delle persone lo ripudia e lo evita come se fosse un’accezione negativa e castrante alla vita. La cultura e l’educazione non ci aiuta. Sia quella religiosa che dà un accezione espiativa o punitiva al dolore. Sia l’educazione emotiva ricevuta dove le emozioni sono categorizzate in due gruppi; ci sono le emozioni buone (gioia, speranza, amore, compassione…), e le emozioni cattive (rabbia, paura, disgusto, senso di colpa…). Se partiamo da questo presupposto ogni emozione “cattiva” genera in noi un dolore. Ci ricorda che siamo sbagliati, che non andiamo bene. O semplicemente ci ricorda la morte. Per un bambino piccolo la morte è associata all’abbandono e/o al rifiuto subito dalle proprie figure di riferimento. Se quando provavamo emozioni “negative” le circostanze ci hanno fatto sentire sbagliati e riprovevoli, il meccanismo scatta. Da qui nascono tutta una serie di patologie di cui questo articolo non ha l’ambizione di approfondire. Quello che possiamo dire è che il nostro sistema emotivo è funzionale. Sempre. Ci è stato dato in dotazione e ci parla di noi. Ogni emozione è utile a qualcosa. Se l’uomo non avesse le emozioni, non le sentisse, non sarebbe sopravvissuto per migliaia di anni. La paura è utile perché se la proviamo c’è un motivo e quel motivo racconta la nostra storia. Ci segnala uno stato di allerta e dovrebbe essere funzionale ad aprire dei cassetti di noi. Come uomini, come persone, come esseri umani. La rabbia ci dice che in quel momento stiamo potenzialmente subendo una minaccia dal mondo esterno o interno. Dentro di noi si scatena una forza che ci dovrebbe portare a consapevolizzare che qualcosa di nocivo ci sta attaccando ingiustamente. Tutto ci parla di noi. Nulla è buono, nulla è cattivo. Sfortunatamente stare nel presente significa entrare in contatto con il mondo delle sensazioni e delle emozioni e questo ci angoscia più di qualsiasi cosa. L’essere umano che ha il coraggio di scendere nei meandri più misconosciuti di sé stesso e conoscersi veramente è un essere raro e coraggioso. È un essere che ha una capacità di accogliersi anche nelle proprie parti più fragili e di volersi bene lo stesso.
Altra malattia della nostra società è sicuramente il perfezionismo. Il perfezionismo è un autoinganno di notevole portata. Anch’esso nasce da una paura. Perché seppur a livello razionale sappiamo che “nessuno è perfetto” ognuno cerca strenuamente di raggiungere degli standard ideali di essere umano? Ci rendiamo conto che nel farlo copriamo le nostre emozioni? Anestetizziamo ciò che sentiamo? Per quale motivo? Per fare in modo che venga compreso questo ragionamento e non scadere nel qualunquismo è necessario distinguere tra autocritica e perfezionismo. L’autocritica può innanzitutto essere positiva o negativa. Lautocritica positiva porta ad un miglioramento delle proprie performance. Ad esempio quando ci diciamo: scrivere poesie non è un’attività che mi riesce particolarmente bene. Questo tipo di frase è funzionale a migliorare una nostra skill. L’autocritica negativa porta alla distruzione di sé stessi e normalmente ad abbandonare anche ciò che di buono siamo. Ad esempio quando ci diciamo: faccio schifo a scrivere poesie. Il perfezionismo nasce sicuramente anche da un’eccessiva autocritica distruttiva ma le fa fare un salto di “qualità”. Se non sono perfetto (ovvero non raggiungo quello standard che mi sono posto), le persone non mi vorranno più. Anche questo meccanismo ci porta a coprire le emozioni. Spesso infatti siamo portati a pensare: “se mi arrabbio con lei perderò la sua amicizia” oppure “se ora sono troppo triste le persone si annoieranno con me, sono un peso”. Per arrivare addirittura a pensare “se mi mostro troppo felice le persone mi invidieranno e si allontaneranno da me”…per lo più sono ragionamenti inconsci ma notiamo come le formule verbali utilizzate sono al futuro.
Probabilmente abbiamo perso la capacità di stare a contatto con la nostra parte più autentica e vera. Per riscoprirla, stare nel presente è il regalo di avanscoperta più grande che ci si possa fare. È inutile che ci lamentiamo se siamo circondati da persone che ci vogliono cambiare. Se non andiamo mai bene. Quando siamo i primi a pretendere lo stesso da noi stessi e addirittura per poterlo fare silenziamo ogni richiamo al presente ci viene fornito dal nostro sistema emotivo. Solo se ci togliamo lo strato di maschere che abbiamo addosso e ci mostriamo come siamo nel presente con tutto il corollario di paure e fragilità possiamo scoprire chi davvero attorno a noi ci può fare bene e accompagnare in questa vita.
La mindfulness non è un farmaco miracoloso, non fa veramente scomparire il dolore. La mindfulness in realtà ci offre qualcosa di più prezioso: invece di anestetizzarci ci aiuta a vedere più chiaramente le abitudini della nostra mente che provocano sofferenza inutile fornendoci una strada per modificarle. La contemplazione di sé stessi attraverso questa pratica offre una via regia alla conoscenza e accoglienza e cambiamento della percezione che abbiamo di noi stessi, aiutandoci a focalizzarci su ciò che veramente è buono per noi, nella nostra vita. Con la mindfulness si può scoprire come la prima causa della sofferenza psicologica che ci affligge siamo noi stessi dandoci una via per liberarcene e smettere di scappare dal presente. Evitare di stare nel presente per fuggire dal potenziale o reale dolore perdiamo la possibilità di meravigliarci in ogni momento di noi stessi e delle infinite bellezze di cui possiamo godere.
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